Proseguendo, il comma 3 dell'
art. 649 c.p.
stabilisce che il regime comune della punibilità e della procedibilità non è derogato per i delitti previsti dagli artt. 628 (rapina), 629 (estorsione), 630 (sequestro di persona a scopo di estorsione) c.p. e per ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone.
Il richiamo specifico ai suddetti delitti rivela la scelta del Legislatore di escludere dalla sfera della punibilità solo le condotte lesive connotate da un interesse di natura patrimoniale, non anche un interesse diverso.
Tuttavia, la prima parte del comma 3 risulta formulata in modo ambiguo e a tratti oscuro, in quanto tale previsione non richiama le corrispondenti forme tentate, donde molteplici dubbi interpretativi emersi nella casistica e in parte risolti dalla Suprema Corte di Cassazione.
Orbene, l'indagine in questione deve necessariamente muovere dalla esatta portata della previsione dell'
art. 56 c.p.
, a norma del quale “chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato se l'azione non si compie o l'evento non si verifica”.
Sul punto, autorevole Dottrina
(5) sostiene che il delitto tentato, sebbene si presenti come un minus rispetto al reato consumato, è, dal punto di vista strutturale, un delitto perfetto, caratterizzato da tutti gli elementi essenziali, ovvero tipicità, antigiuridicità e colpevolezza.
Perciò, esso rappresenta una particolare forma di manifestazione del delitto, tale da dar luogo ad autonomo titolo di reato, pur conservando il medesimo nomen iuris della figura corrispondente di delitto consumato.
La qualificazione del delitto tentato quale fattispecie autonoma non è dovuta ad esigenze puramente classificatorie, ma produce rilevanti conseguenze pratiche.
Invero, un costante filone giurisprudenziale, condiviso da una recente sentenza delle Sezioni Unite
(6) che esamina una fattispecie diversa ma speculare rispetto a quella in esame, afferma il principio di diritto secondo cui, se la legge ricollega determinati effetti giuridici sfavorevoli alla commissione di reati specificamente indicati mediante l'elencazione degli articoli che li prevedono, deve ritenersi che quegli effetti si producono esclusivamente in relazione alle fattispecie consumate e non anche ai delitti rimasti nello stadio del mero tentativo.
A contrario, se il legislatore ricollega determinati effetti giuridici sfavorevoli alla commissione di fatti criminosi indicati genericamente con le locuzioni “reati” o “delitti”, deve intendersi che si applichino sia alle ipotesi consumate sia a quelle tentate.
La ratio sottesa a tale opzione ermeneutica è correlata, da un lato, al divieto di interpretazione in malam partem e, dall'altro, alla natura autonoma del delitto tentato.
Difatti, non si può ammettere un'interpretazione estensiva della norma penale sfavorevole, che indichi nominativamente i singoli delitti, perché si realizzerebbe un'evidente violazione del principio di tassatività della norma penale, corollario del principio di legalità ex
art. 25 della Costituzione
, in forza del quale il legislatore deve stabilire espressamente ciò che rientra nell'area del “penalmente lecito” e tutto ciò che, al contrario, rientri in quella del “penalmente illecito”.
Né si rende possibile un'applicazione analogica alle corrispondenti ipotesi di delitto tentato, in quanto trattasi di norma penale sfavorevole, la cui estensione determinerebbe la manifesta violazione del principio del favor rei.
Infatti, un'interpretazione in malam partem consentirebbe l'esclusione della causa di non punibilità ad un'ipotesi più lieve rispetto a quella prevista espressamente dal dato normativo.
Tuttavia, dall'altro lato, proprio facendo leva sulla natura autonoma del delitto tentato, ampiamente condivisa dalla Dottrina, il richiamo generico ai “delitti” o ai “reati” necessariamente dovrà includere sia i delitti consumati sia quelli tentati.
Orbene, venendo alla norma in scrutinio, la prima parte del comma 3 richiama espressamente i singoli delitti di cui agli artt.
628
,
629
,
630
c.p., omettendo le corrispondenti forme tentate, con la conseguente applicazione della esclusione della causa di non punibilità ai soli delitti di estorsione, rapina e sequestro di persona a fini estorsivi che si siano consumati.
Sicché, se il legislatore avesse voluto estendere la esclusione della causa di non punibilità anche alle forme tentate, avrebbe dovuto farne menzione o affiancare ad ogni norma il richiamo all'
art. 56 c.p.
Ebbene, se ci limitassimo alla lettura della sola prima parte del comma 3 dell'
art. 649 c.p.
, si giungerebbe alla conclusione per cui non sono mai punibili i reati di cui agli artt.
628
,
629
,
630
c.p. se si arrestano alla forma tentata.
Senonché, la seconda parte del comma 3, con la sua ampia formulazione “ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone” si riferisce - evidentemente -sia ai delitti consumati sia a quelli tentati, in ragione proprio della citata autonomia di questi ultimi.
Di conseguenza, da una lettura complessiva della norma in esame e sulla base dell'iter logico-giuridico seguito dalle Sezioni Unite
(7), il regime comune della punibilità e della procedibilità non è derogato per i delitti consumati di cui agli artt.
628
,
629
,
630
c.p. e per ogni delitto contro il patrimonio, consumato o tentato, che sia stato commesso mediante atti di violenza.
Ne consegue che, quest'ultimo sintagma comprende anche i delitti di estorsione, rapina e sequestro di persona a scopi estorsivi, qualora siano stati commessi con violenza alle persone e sebbene si siano arrestati allo stadio del tentativo.
Tuttavia, non sono mancate pronunce che hanno sposato un'interpretazione restrittiva, alla luce dei principi di tassatività e legalità che devono guidare l'interprete e che devono garantire al cittadino leggi chiare e precise, così che egli sappia in qualsiasi momento cosa gli è lecito e cosa gli è vietato
(8).
Difatti, facendo leva su tali principi, si sostiene che le norme penali siano di stretta interpretazione; quindi, anche quando la legge utilizza il lemma “delitto”, esso deve intendersi come “delitto consumato”, in quanto, essendo il tentativo una fattispecie autonoma, gli effetti sfavorevoli previsti da una determinata norma devono considerarsi stricto sensu e non possono estendersi anche al delitto tentato, salvo espressa previsione normativa
(9).
Sulla base di questa interpretazione, il comma 3 dell'
art. 649 c.p.
farebbe riferimento alle sole forme consumate sia dei reati specificamente indicati, sia dei delitti contro il patrimonio commessi con violenza.
Orbene, la decisione del Tribunale qui annotata finisce per porsi in conflitto con quanto affermato dalle Sezioni Unite che, per quanto in una fattispecie diversa, hanno affermato il principio di cui sopra, utile per la risoluzione della vexata quaestio.
Difatti, il Giudice ha sostenuto che la esclusione della causa di non punibilità si applica solo alle forme consumate degli artt.
628
,
629
e
630
c.p., trascurando, però, la modalità attraverso cui il tentativo era stato posto in essere nell'episodio esaminato, id est con violenza alla persona.
Invero, si trattava di un caso di tentata estorsione accompagnata da atti di violenza contro la moglie e, dunque, pienamente rientrante nella previsione della seconda parte del comma 3 per cui la non punibilità è esclusa per “ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone”.
D'altronde, anche la giurisprudenza della Suprema Corte, richiamata a sostegno della decisione del Tribunale di Lecce, si riferisce ad un caso decisamente diverso, ove si è ritenuta applicabile la causa di non punibilità alla moglie riconosciuta colpevole di tentata estorsione, ma accompagnata dalla sola minaccia ai danni del marito.
Sicché, è evidente che il discrimen è dato proprio dalle modalità di attuazione della condotta, poiché nel caso esaminato dalla Suprema Corte la tentata estorsione si era realizzata con la sola minaccia, mentre nel caso posto all'attenzione del Tribunale di Lecce l'estorsione era stata accompagnata da atti violenti ai danni del coniuge, dunque, pienamente rientrante nella seconda parte dell'
art. 649, comma 3, c.p.